MF | Così l’oligopolio digitale tiene in ostaggio la società globale

MF 23/07/2024 – Di Guido Scorza

L’incidente di venerdì 19 luglio, con i computer di mezzo mondo bloccati per ore e servizi pubblici essenziali – treni e aerei, banche e ospedali – inutilizzabili su scala globale ha messo a nudo l’insostenibile fragilità della società connessa nella quale viviamo.

All’origine di tutto, un errore – tutto sommato banale e verosimilmente evitabile – di una sola azienda nell’aggiornare i sistemi di un’altra azienda i cui servizi sono, tuttavia, utilizzati, direttamente o indirettamente, da miliardi di persone.

Si è trattato del più classico effetto domino. E, naturalmente, quello che in questa occasione è accaduto per errore, domani potrebbe accadere per ragioni diverse: un’aggressione informatica dettata da motivi economici o politici o una qualsiasi vicenda commerciale che comprometta la continuità operativa delle aziende in questione e delle pochissime altre che hanno in mano le tessere capofila del domino digitale globale.

Ecco perché non preoccuparsi di quanto è successo sarebbe incosciente e irresponsabile. Venerdì ha suonato un allarme che va preso sul serio. E nel farlo occorre essere lucidi, franchi, concreti e al tempo stesso non convenzionali nella ricerca dei possibili rimedi. Mentre non c’è niente che si possa fare per escludere il rischio che incidenti analoghi si ripetano, infatti, c’è spazio per lavorare a diminuirlo e, soprattutto, per limitare la portata delle conseguenze di analoghi episodi.

Ecco tre tra i principali elementi della tempesta perfetta da tenere sotto controllo e sui quali intervenire per scongiurarla.

Il primo: la condizione di dipendenza della società globale da una manciata di oligopolisti di servizi digitali e infrastrutture tecnologiche.

Il secondo: la circostanza che la concorrenza tra questi oligopolisti e le poche altre aziende globali che ancora provano a competere con loro si è ormai trasformata in una gara di velocità nella quale si pensa solo ad arrivare primi anche a costo di accettare rischi enormi in termini di impatto sulla società e sulla vita delle persone, tra l’altro, sperimentando sempre meno in laboratorio e facendolo sempre più direttamente sul mercato.

Il terzo: la cecità della fiducia tecnologica o, meglio, della fiducia nei fornitori di servizi e infrastrutture tecnologiche ai quali ci consegniamo e consegniamo diritti e libertà fondamentali con disarmante superficialità.

Ma se questa è la situazione, cosa potremmo o, forse, dovremmo fare per non lasciarci scivolare addosso quanto accaduto venerdì?

Sul primo versante, quello della condizione di dipendenza della società dagli oligopolisti digitali, probabilmente, la parola d’ordine dell’unica risposta possibile è: diversificazione.

Meno si dipende da pochi e, anzi, pochissimi fornitori, infatti, più si limita il rischio che le conseguenze di un incidente come quello di venerdì siano planetarie.

Diluire e depotenziare gli oligopoli digitali, pertanto, non è più solo un fatto di concorrenza sui mercati, di sovranità digitale e democrazia o di pluralismo mediatico ma anche e, anzi, soprattutto, un fatto di sostenibilità della società digitale e connessa nella quale viviamo. E non si tratta di puntare l’indice contro gli oligopolisti digitali o imputare loro questa o quella responsabilità ma semplicemente di prendere atto che le dimensioni che hanno raggiunto e la condizione di dipendenza dai loro servizi della quale l’intera società globale è ostaggio ci espone tutti a rischi insostenibili.

E non possiamo permetterci il lusso di entrare nella società degli algoritmi in queste condizioni perché complice la maggior pervasività dell’intelligenza artificiale nelle nostre vite le conseguenze di un incidente come quello di venerdì, domani rischierebbero di essere ancora più gravi, forse devastanti.

Sotto questo profilo, probabilmente, le attuali regole del mercato, nel pubblico come nel privato, non bastano più e fare il possibile per garantire un adeguato livello di concorrenza nei mercati digitali come a Bruxelles si è cercato di fare, da ultimo, con il Digital Service Act e il Digital Market Act, non è più abbastanza: servirebbe imporre ex lege quote massime di presenza sui mercati pubblici e privati dei servizi e delle infrastrutture digitali per scongiurare il rischio non di abusi ma, semplicemente, di eccessi di dipendenza tecnologica quali quelli che hanno reso globale la portata dell’incidente di venerdì.

Sul secondo versante, quello della concorrenza diventata una semplice gara di velocità, la regola del first mover che impera nei mercati digitali sta producendo conseguenze insostenibili e rischia di generarne di peggiori negli anni che verranno.

Bisogna imporre a chi produce e fornisce tecnologie di sperimentarle in laboratorio prima che sul mercato e di distribuire prodotti e servizi solo dopo che abbiano superato test e controlli rigorosi e severi come oggi accade con farmaci e dispositivi sanitari ma anche automobili e centinaia di altri prodotti. In questi ambiti, da tempo, abbiamo raggiunto, con gradazioni diverse, un bilanciamento tra l’esigenza di promuovere e lasciar correre il progresso scientifico e tecnologico per coglierne le straordinarie opportunità e quella di limitare – consapevoli, peraltro, che siano ineliminabili – i rischi di errori ed effetti collaterali.

Dobbiamo fare altrettanto con prodotti e servizi tecnologici e, soprattutto, con i modelli di intelligenza artificiale generativa e multimodale presenti e futuri.

Sul terzo versante, quello della fiducia cieca, con la quale ci consegniamo mani e piedi a una manciata di fornitori di servizi e infrastrutture tecnologiche, probabilmente, l’unica possibile risposta è di tipo educativo: dobbiamo promuovere un uso più consapevole, responsabile e meno passivo di quello che abbiamo fatto sin qui di certi servizi e soluzioni digitali.

Perché è un dato di fatto che le conseguenze dell’incidente di venerdì sarebbero state diverse se i tanti clienti delle aziende coinvolte avessero disposto al loro interno di maggiori risorse e competenze qualificate, capaci di gestire l’accaduto in modo più tempestivo e efficace.

Difficile negare che nel pubblico e nel privato è diffusa e crescente una fiducia talvolta eccessiva e ingiustificata nell’affidabilità delle infrastrutture e dei servizi tecnologici utilizzati, una fiducia che talvolta sconfina nella dipendenza passiva dai grandi fornitori globali di tecnologia ai quali ci si consegna e si consegnano le nostre vite, le nostre amministrazioni e le nostre aziende quasi si trattasse di alchimie o trovati salvifici, miracolosi, esenti da qualsivoglia vizio o difetto.

E così facendo si intreccia indissolubilmente il nostro destino e quello della società nella quale viviamo a quello dei grandi fornitori globali di tecnologie digitali: se loro sbagliano, noi ne paghiamo le conseguenze come se a sbagliare fossimo stati noi.

Bene che i robot e le intelligenze artificiali entrino nelle nostre case, nelle nostre amministrazioni e nelle nostre aziende ma solo a condizione che, con loro, vi entrino anche competenze capaci di governarne il funzionamento o, almeno, gestirne le conseguenze anche quando qualcosa andasse storto in casa del loro fornitore. Da uomini di questo tempo abbiamo una responsabilità enorme: liberare la società che lasceremo ai nostri figli dal giogo degli oligopoli digitali garantendo, comunque, loro gli straordinari benefici e opportunità che ricerca scientifica e tecnologia offrono da sempre all’umanità.