HUFFINGTON POST | Social vietati ai più giovani: si può fare, non si può continuare a rimandare

Huffington Post 29/11/2024 – Di Guido Scorza

L’Australia ha appena fatto la sua scelta. Continuare a rinviare, a chiedere e a prendere tempo non si può più. Stiamo parlando di misure preziose per migliorare la qualità della vita nella dimensione digitale di oltre un miliardo di bambini in tutto il mondo.

L’Australia ha appena fatto la sua scelta: vietare i social ai minori di sedici anni, ponendo in capo ai gestori delle piattaforme l’obbligo di far rispettare il divieto a pena di incorrere in sanzioni fino a 30 milioni di euro.

La decisione del Parlamento di Camberra ha immediatamente accesso un dibattito globale sull’opportunità e utilità di un divieto del genere, un dibattito prezioso anche in Italia dove il Parlamento sta discutendo un disegno di legge bipartisan che, tra l’altro, prevede di vietare l’accesso ai social ai minori di quindici anni.

Tra i contrari, naturalmente, l’industria tecnologica secondo la quale la legge avrebbe richiesto maggiore ponderazione e discussione e il divieto non funzionerà assieme a quanti ritengono che più che chiudere i social ai più giovani bisognerebbe insegnare loro a usarli in maniera responsabile.

Tra i favorevoli, tanti – difficile dire se in numero maggiore o minore ai contrari – in tutto il mondo, Europa inclusa che si dicono convinti che sia una scelta indispensabile per proteggere per davvero i più giovani dai rischi nei quali si imbattono nei social.

In uno scenario del genere qualche riflessione sembra utile.

La prima è che Internet, le app, i servizi digitali con poche eccezioni non sono stati progettati per i più giovani e, in questa prospettiva, lasciare che un giovanissimo – difficile dire se di sedici, quindici o quattordici anni – li usi è intrinsecamente pericoloso come è pericoloso che un bambino più basso dell’altezza minima necessaria a salire sul trenino di una giostra vi salga, semplicemente perché le cinture di sicurezza di quel trenino non sono progettate per trattenere al sedile chi è più basso di quanto indicato all’ingresso.

E online sono gli stessi social, già oggi, a dichiarare le loro piattaforme e servizi a chi ha meno di una certa età, normalmente identificata in tredici anni.

Quindi, bene preferire l’educazione all’uso consapevole e responsabile dei servizi digitali a ogni forma di divieto di uso di questi servizi ma a condizione che si discuta di chi ha almeno una certa età.

La seconda è che la fiera opposizione dell’industria di riferimento alla prossima nuova legge australiana lascia perplessi: già oggi, a prescindere da divieti e sanzioni, i gestori delle piattaforme dovrebbero lasciare fuori dalla porta i minori di tredici anni giacché sono loro stessi a dichiarare che le loro piattaforme sono riservate a chi ha più di tredici anni.

E allora? Quale è il problema?

I sedici anni anziché gli attuali tredici stabiliti dal Parlamento di Camberra o la sanzione per l’ipotesi in cui non si faccia abbastanza per presidiare il divieto?

Nel primo caso – a prescindere dal fatto che si possa condividere o meno il riferimento ai sedici anni della legge australiana o quello ai quindici del disegno di legge italiano – non sembra però lecito dubitare che dovrebbe toccare proprio ai decisori pubblici e non certo al mercato stabilire l’età di riferimento al di sotto della quale tenere i più giovani fuori da piattaforme inadatte a loro.

Non abbiamo lasciato scegliere alle fabbriche di tabacco o ai costruttori di automobili le età minime per acquistare sigarette o guidare un’automobile.

Nel secondo caso, la posizione dell’industria sembra un po’ ipocrita: non si può sostenere che un limite di età va bene fino a quando nessuno ti chiede di farlo rispettare per davvero, minacciando in caso contrario una sanzione.

Perché messa così il sospetto che viene è che l’intera industria di riferimento sia consapevole che gli attuali limiti di età sono largamente inattuati e non rispettati.

E la stessa conclusione, per la verità, suggerisce l’argomento pure speso contro la decisione australiana secondo il quale il divieto sarebbe destinato a non funzionare per assenza di soluzioni tecno-organizzative efficaci.

Ancora una volta, se le cose stanno così, questo significa che quello che oggi, senza obblighi, divieti e sanzioni, i gestori delle piattaforme stanno facendo per tenere i più giovani – fossero anche solo gli infratredicenni – fuori dalle loro piattaforme non è abbastanza e gli stessi gestori ne sono consapevoli.

Sarebbe una conclusione grave e amara.

Ma questa questione porta alla terza riflessione.

Stiamo parlando di gestori di piattaforme e fornitori di servizi che hanno letteralmente rivoluzionato, a colpi di tecnologia, il modo nel quale miliardi di persone in tutto il mondo vivono, interagiscono le une con le altre e lavorano.

Stiamo parlando di giganti tecnologici che hanno letteralmente sgretolato il concetto del tecnologicamente impossibile.

Non è seriamente credibile che, volendolo per davvero, non siano in grado di progettare e sviluppare soluzioni capaci di fare in modo che a un bambino non basti mentire sulla propria età per iniziare a usare un servizio non adatto per lui.

E, allo stesso modo, non è intellettualmente onesto suggerire che farlo significherebbe travolgere la privacy di miliardi di persone.

I destinatari dell’obbligo di verifica dell’età degli utenti di prossima introduzione in Australia e sul quale sta lavorando anche il Parlamento italiano, volendolo, potrebbero – ammesso che già non lo conoscono – certamente trovare forme e soluzioni per raggiungere l’obiettivo, rispettando la privacy degli utenti.

La quarta considerazione è più semplice e lineare di tutte le precedenti: serve più tempo hanno detto i rappresentanti delle big tech, nei giorni scorsi, davanti al Parlamento australiano.

Ma come può un’industria che ci ha abituato a autentiche rivoluzioni con cadenza ormai mensile sostenere che serva più tempo per implementare misure che avrebbero dovuto accompagnare l’immissione sul mercato dei propri servizi fin dai primi istanti per scongiurare il rischio che anche soltanto un bambino si trovasse a vivere esperienze semplicemente inadatte alla sua età?

E la legge australiana prevede che divieti e sanzioni saranno applicabili dodici mesi dopo la sua entrata in vigore.

Continuare a rinviare, a chiedere e a prendere tempo non si può più.

Stiamo parlando di misure preziose per migliorare la qualità della vita nella dimensione digitale di oltre un miliardo di bambini in tutto il mondo.

Si può fare, i social si possono chiudere ai più piccoli di una certa età – quale che sia l’età di riferimento – anzi lo si deve fare perché online, proprio come nel mondo fisico, non tutto può essere per tutti e per tutte le età.

FONTE: Social vietati ai più giovani: si può fare, non si può continuare a rimandare – HuffPost Italia