SPECCHIO | L’insostenibile velocità del progresso

Specchio 05/01/2025 – Di Guido Scorza

Ci sono voluti sessantadue anni perché cinquanta milioni di persone utilizzassero un’automobile per spostarsi, sessanta perché avessero un telefono a casa, quarantotto perché disponessero dell’elettricità e ventidue perché possedessero un televisore.

Il computer, per conquistare lo stesso pubblico di cinquanta milioni di persone ci ha messo quattordici anni, il telefonino dodici e Internet sette mentre il vecchio – verrebbe da dire – Ipod che qualcuno non ricorda neppure più, ce ne mise quattro come quattro ne impiegò YouTube per poter contare sui suoi primi cinquanta milioni di utenti.

ChatGPT, il servizio online basato sugli algoritmi di intelligenza artificiale generativa di OpenAI che, ormai – ma forse bisognerebbe dire già – conosciamo tutti, in meno di due mesi aveva raggiunto cento milioni di utenti attivi mensili, il doppio di quelli raggiunti da YouTube in quattro anni.

TikTok, una delle piattaforme di videosharing oggi più note al mondo, appena qualche anno prima, aveva fissato il record di rapidità di diffusione, superando lo stesso traguardo dei cento milioni di utenti in nove mesi, un tempo più lungo di oltre quattro volte rispetto a quello impiegato da ChatGPT.

Sono cifre che sembrano sufficienti, senza bisogno di alcun commento, a raccontare la costante e inarrestabile accelerazione del ritmo di diffusione di prodotti e servizi che hanno indiscutibilmente cambiato significativamente le nostre vite e avuto un impatto rivoluzionario sulla società.

Un impatto sempre più rapido, un impatto che all’inizio si misurava in decenni, poi in anni, quindi in mesi e oggi in settimane.

Difficile non chiedersi se il ritmo del progresso tecnologico di oggi – e quello di domani – sia sostenibile dalla società nel suo complesso e da ciascuno di noi nella dimensione individuale è, al contrario, legittimo. Anche perché le invenzioni di oggi sono straordinariamente più complesse di quelle di ieri e hanno un impatto enormemente più trasversale sulla società.

Non c’è paragone, tanto per fare un esempio, tra l’unica funzione di un telefono fisso di un tempo che serviva solo per parlare con un interlocutore a distanza e le migliaia di possibili funzioni di uno smartphone, anche di non più nuovissima generazione, nel quale la funzione di comunicazione vocale è, ormai, diventata quasi residuale rispetto a tutte le altre possibili forme di impiego, dalla messagistica istantanea, alla condivisione di contenuti, passando per la cattura di immagini fisse e in movimento a alta definizione e la funzione di navigazione satellitare che ha letteralmente rivoluzionato il modo in cui ci muoviamo nelle nostre città e viaggiamo all’estero.

Senza dire di quell’ecosistema popolato da centinaia di milioni di applicazioni che rendono lo stesso smartphone utilizzabile per cucinare, per acquistare ogni genere di prodotto o servizio, per cercare e incontrare l’anima gemella o conoscere nuovi amici nell’universo dei social network così come per monitorare il nostro corpo e darci indicazioni terapeutiche di ogni genere.

E questo, naturalmente, vale anche – e anzi a maggior ragione – per i nuovi servizi basati sull’intelligenza artificiale, utilizzabili in migliaia di modi diversi per risolvere o, almeno, provare a risolvere centinaia di migliaia di problemi nel quotidiano personale e professionale di ciascuno di noi così come questioni epocali con le quali la società globale si confronta da secoli.

C’è, insomma, un rapporto di proporzionalità inversa tra la riduzione del tempo a disposizione delle persone e della società per conoscere e sperimentare le nuove tecnologie rese disponibili dal progresso tecnologico e l’aumento della complessità di queste ultime.

Sempre meno tempo, per prendere confidenza con soluzioni sempre più complesse.

Difficile pensare che questo non rappresenti un problema e difficile credere che non esistano limiti biologici, sociologici, culturali, economici, giuridici e democratici in questo rapporto e che tutto questo non rischi, ad un certo punto – che potremmo aver già raggiunto – di creare conseguenze opposte rispetto a quelle attese dall’innovazione tecnologica: anziché un incremento diffuso e condiviso del benessere collettivo, un incremento diffuso degli effetti collaterali indesiderati, accompagnato da un incremento della concentrazione di opportunità, ricchezza, potere e risorse di vario genere nelle mani di pochi.

Ecco, forse, il fattore tempo è un aspetto dell’impatto sulla società di tutti i fenomeni innovativi con i quali ci stiamo confrontando, a cominciare proprio dall’intelligenza artificiale, sul quale ci fermiamo troppo raramente e troppo poco a pensare e che, invece, meriterebbe maggiore attenzione e che dovremmo preoccuparci di più di governare.

Anche perché l’impennata del ritmo di diffusione delle nuove tecnologie si accompagna a un altro fattore che, egualmente, forse, meriterebbe maggiore attenzione: lo spirito critico che accompagna l’adozione delle nuove tecnologie, infatti, continua a calare rispetto al passato.

Un’altra funzione di proporzionalità inversa: più le tecnologie diventano potenti e complesse meno ci preoccupiamo nell’iniziare a usarle in maniera diffusa e planetaria.

Basta pensare all’arrivo sulle strade delle prime automobili che in Inghilterra fu immediatamente seguito, nel 1865, dal cosiddetto Red Flag Act, una legge che imponeva un limite di velocità di 3,2 chilometri orari e, soprattutto, stabiliva che un uomo, con una bandiera rossa in mano, dovesse precedere ogni automobile di circa 55 metri per segnalare il pericolo.

E, a proposito del fattore tempo, di cui si è detto, varrà la pena ricordare, che il Red Flag Act è rimasto in vigore, per oltre trent’anni, fino al 1896.

Poi è arrivato prima lo smartphone e, quindi, ChatGPT e, come si è detto, nello spazio di qualche mese, milioni di persone in tutto il mondo, hanno iniziato a utilizzarli, senza leggere neppure le istruzioni e le avvertenze per l’uso – che, infatti, non sono più neppure inserite nelle confezioni dei telefonini e non sono mai esistite sulla piattaforma di ChatGPT – e senza porsi nessun genere di problema.

Ma non basta.

Perché quando nel marzo del 2023 il Garante per la protezione dei dati personali italiano, primo al mondo, ordinò a OpenAI di interrompere la propria attività in Italia fino a quando non fosse stata in grado di rispettare non una nuova legge tipo il Red Flag Act, ma le regole sulla privacy già in vigore da anni, l’opinione pubblica reagì ferocemente, contestando all’Autorità di remare contro l’innovazione e di averle sottratto la possibilità di usare ChatGPT, un servizio disponibile sul mercato da appena tre mesi ma universalmente considerato straordinariamente utile, direi già irrinunciabile.

E vale la pena ricordare che quel blocco durò appena dodici giorni che, ai più, tuttavia, sembrarono un’eternità.

Difficile, anche in questo caso, non preoccuparsi del fatto che, oggi, non ci si preoccupi affatto dell’impatto di nuove tecnologie straordinariamente più potenti e rivoluzionarie di quelle di ieri sulla nostra vita e, anzi, ci si preoccupi di più della circostanza che si provi, in qualche modo, a governare questo impatto.

Sin troppo facile prevedere che, qualcuno, davanti a queste considerazioni, griderà al neo-luddismo e alla tecnofobia.

Ma il punto non è questo.

Abbiamo un disperato bisogno dell’innovazione tecnologica. È, probabilmente, la freccia migliore nella faretra della società. È, però, una freccia che può trasformarsi facilmente in un boomerang e ritorcersi contro la società.

Tutto dipende da come riusciremo a governarne l’impatto sulla società, a cominciare proprio dal tempo di adozione massiva di certe tecnologie e dall’esigenza che le persone prima ne capiscano le potenzialità e ci si avvicinino con il necessario spirito critico e poi inizino a usarle.

Non si tratta di tirare il freno a mano, ma, semplicemente, di limitare la velocità o, almeno, di prevedere che prima di correre così tanto in ogni dimensione della nostra esistenza, le nuove tecnologie si sperimentino, in aree chiuse, in laboratorio, per misurarne, verificarne e, eventualmente, contenerne rischi eccessivi e effetti collaterali insostenibili.

Ecco nessuno stop e nessun semaforo rosso, ma un semaforo arancione sì, forse è davvero necessario e, anzi, indispensabile.

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