MF | Nepal, proteste e 51 morti dopo il blocco dei social: il rischio democratico che riguarda anche l’Europa

Nepal, proteste e 51 morti dopo il blocco dei social: il rischio democratico che riguarda anche l’Europa | MilanoFinanza News

Katmandu oscura Facebook, Instagram, WhatsApp e scatena violente manifestazioni. Il caso solleva interrogativi globali sul rapporto tra leggi nazionali, libertà di espressione e potere delle big tech


Gli scontri in Nepal e l’attrito tra democrazia e tencocrazia si è conclusa con almeno 51 morti, decine di feriti e la revoca dell’ordine di rendere inaccessibili nel Paese Facebook, Instagram, WhatsApp, WeChat e un’altra ventina di social network e app di messagistica, la drammatica vicenda delle proteste scoppiate in Nepal proprio a seguito dell’adozione, da parte del governo di Katmandu, dell’ordine di blocco. Si sbaglierebbe tuttavia a bollare quanto accaduto solo come un episodio distante nella dimensione geografica, politica e culturale e a voltare pagina in fretta. Perché quello che è accaduto in Nepal potrebbe accadere domani anche a casa nostra e solleva una serie di riflessioni. Per farle bisogna riavvolgere il nastro e mettere in fila i fatti all’origine della vicenda. In Nepal vige una legge che disciplina il funzionamento dei media, social network inclusi. Alcune delle disposizioni di questa legge sono,
oggettivamente, almeno discutibili in termini di impatto sulla libertà di manifestazione del pensiero.Tra queste l’obbligo di identificazione degli utenti prima di consentire loro la pubblicazione di qualsiasi contenuto, quello di chiedere e ottenere una licenza per l’esercizio di una serie di attività digitali – social network e app di messaggistica inclus – e quello di rimozione, da parte dei gestori delle piattaforme digitali, di ogni contenuto dietro semplice richiesta del governo, in assenza di qualsivoglia accertamento dell’illiceità della pubblicazione da parte di un giudice o di un’autorità. Difficile non nutrire dubbi almeno sulla potenzialità liberticida di queste disposizioni. Ma torniamo alla storia all’origine delle proteste.

Ventisei fornitori di servizi digitali, tra i quali appunto Facebook, Instagram e WeChat, si
sono sin dall’inizio rifiutati di adempiervi. Il rifiuto – che sia vero in tutto o in parte o che sia soltanto un alibi – è stato giustificato proprio con l’enorme sacrificio della libertà di manifestazione del pensiero che l’adempimento avrebbe comportato. Qui vale la pena fermarsi un istante per annotare una circostanza non secondaria. Disposizioni analoghe vigono in altri Paesi in giro per il mondo, in molti casi più rilevanti per i social media, in particolare in termini di numero di utenti e valore del business, che il piccolo Nepal con i suoi neppure 30 milioni di abitanti. In alcuni di questi Paesi, l’India per esempio, le stesse società protagoniste della vicenda nepalese, sebbene dopo qualche ritrosia, si sono adeguate alle leggi vigenti. Una prima riflessione quindi si impone: anche a voler credere alla circostanza che il rifiuto
di adempiere alla disciplina nepalese sia stato in tutto o in parte dettato dalla voS lontà di non prestarsi a una potenziale compressione della libertà di manifestazione del pensiero degli utenti, questa preoccupazione sembra di intensità variabile, rinunciabile dove non adempiere comporta un importante sacrificio in termini di business, non rinunciabile dove il sacrificio in termini di business è modesto e sostenibile. È da una parte un intreccio tra interessi economici e democratici significativo e, dall’altra, una circostanza da annotare perché il nostro Paese, con i suoi 60 milioni di abitanti, è più simile al Nepal che all’India con il suo quasi un miliardo e mezzo di abitanti. Ma c’è di più. Assumendo, ancora una volta, che l’inadempimento alla legge nepalese da parte dei social media sia in tutto o in parte genuinamente dettato dalla volontà di proteggere la libertà di parola degli utenti, forse bisognerebbe chiedersi
se questa forma di disobbedienza giuridico-tecnologica sia davvero virtuosa, auspicabile e democraticamente sostenibile. La risposta è tutt’altro che facile. Senza forme di disobbedienza di questo tipo infatti non avremmo probabilmente, avuto le primavere arabe in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen tra il 2010 e il 2012 o almeno la loro eco e il loro impatto sarebbero stati decisamente più modesti. Tuttavia affermare un principio secondo il quale gli standard, le condizioni generali di contratto, le policy e le decisioni commerciali delle big tech contano più delle leggi in vigore in un Paese democratico – sebbene con taluni limiti – come il Nepal rischia di condurre alla sostituzione dell’ordine democratico, per quanto perfettibile, con quello tecnocratico, egualmente perfettibile se non imperfetto by default. In questa prospettiva, peraltro, merita di essere considerato il fatto che più le tecnologie diventano pervasive nella vita delle persone e della società come sta accadendo con algoritmi e intelligenze artificiali, più legittimare certe forme di pirateria tecno-giuridico-commerciale – non importa quanto nobili siano i fini ai quali sono asservite – potrebbe essere democraticamente insostenibile giacché
l’estremizzazione del principio apre la porta a scenari di diffusa disapplicazione delle leggi o, peggio, di sovrascrittura delle regole democratiche a mezzo di regole algoritmiche dettate e, anzi, imposte da società commerciali. È un problema di dimensioni enormi legato a doppio filo al fenomeno, in atto ormai da anni, della progressiva sostituzione di poteri pubblici con poteri privati: l’agire dei singoli e della società – nella dimensione personale, professionale, politica, culturale e economica – è sempre più il portato di decisioni etero-tecno-dirette. E si arriva così all’ultima – ma solo per fermarsi alle principali – riflessione sollevata dalla vicenda nepalese: un governo, democratico fino a prova contraria, mette al bando, in conformità a quanto previsto da una legge democraticamente adottata, i servizi forniti da
una serie di società private che quella legge si rifiutano di rispettare e i cittadini scendono in piazza e manifestano, in alcuni casi fino a farsi uccidere, non dalla parte del governo ma da quella delle società che hanno violato la legge in questione. Tutto normale? È un’altra domanda da porsi. Certo i manifestanti, scendendo in piazza, hanno difeso la loro libertà di parola che hanno visto minacciata dalla messa al bando dei social network, però il cortocircuito esiste ed è innegabile se per difendere un diritto fondamentale bisogna protestare per costringere il proprio governo a riaprire l’accesso a dei servizi commerciali che stanno violando delle leggi in vigore. L’ordine democratico delle cose non vorrebbe, semmai, si protestasse per ottenere la modifica delle leggi con conseguente riapertura, ma solo a seguito di questa modifica, dei servizi chiusi in forza di una legge a quel punto non più in vigore? La complessità delle questioni sollevate dalla vicenda nepalese è tale che sbaglia solo chi è certo di avere la risposta giusta in tasca oppure chi quella risposta rinuncia a cercarla nell’ambito di un dibattito che forse, Nepal a parte, stiamo rinviando da troppo tempo.

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