SPECCHIO | Siamo noi i peggiori genitori di sempre? Intervento di Guido Scorza

Specchio – 25/05/2025

Siamo noi i peggiori genitori di sempre? Negli anni ’70 i bambini viaggiavano in macchina su un’amaca sospesa agganciata da un lato all’altro dei sedili posteriori. A ogni buca, frenata o curva rischiavano inesorabilmente di finire fuori dal finestrino o di rimbalzare sul sedile e carambolare sui tappetini dell’auto. E l’amaca in questione non era un aggeggio fatto in casa ma l’ultimo gadget per il benessere dei bambini prodotto e venduto da un’azienda tuttora leader nel settore della prima infanzia.

 Vedere oggi la pubblicità dell’epoca di quell’amaca mette i brividi. Eppure, su quell’amaca, bambini di ogni età hanno attraversato l’Italia e l’Europa, sono andati in vacanza per anni, al mare e in montagna. E lo hanno fatto come si trattasse della cosa più naturale del mondo perché, semplicemente, lo era.

I loro genitori erano irresponsabili, incoscienti, criminali? Può darsi. 

D’altra parte, le auto nelle quali si appendeva quell’amaca, non avevano cinture di sicurezza, non montavano airbag, non disponevano di barre d’acciaio per la protezione di conducente e passeggeri lungo le portiere e uscivano dalle fabbriche per finire sul mercato e sulle strade senza aver superato nessuno – o quasi nessuno – dei test con i quali oggi i costruttori sono tenuti, per legge, a dimostrarne la sicurezza. 

E non basta. Bere birra e mettersi alla guida, anche con i bambini a bordo, era cosa comune. Anzi, la birra veniva pubblicizzata come «la bevanda più adatta per i piloti d’auto perché non turba la loro integrità neuropsichiatrica e ne garantisce il perfetto equilibrio biologico». E pensare che oggi se ci si mette alla guida subito dopo aver bevuto una bottiglietta di birra da 33 centilitri si rischia il ritiro della patente nel migliore dei casi e l’arresto, se qualcosa va storto. Farlo con dei bambini stesi su un’amaca sospesa lungo i sedili posteriori oggi sarebbe certamente considerato criminale. 

Decisori pubblici, parlamentari, Governi nazionali e europei del tempo erano irresponsabili, incoscienti, criminali? Può darsi. 

E, naturalmente, questo esercizio potrebbe proseguire all’infinito o quasi. Il fumo dappertutto, pubblicità e programmi televisivi inclusi, a cominciare dalle centinaia di sigarette fumate in diretta, davanti alle telecamere delle emittenti-ammiraglie da Gianfranco Funari, compianto leone della televisione nazionalpopolare di ieri. Che accadrebbe oggi se uno dei volti noti della prima serata si accendesse una sigaretta in TV? 

E non è solo una questione di fumo e circolazione stradale. 

C’erano anche la plastificazione di qualsiasi oggetto plastificabile e il suo smaltimento completamente deregolamentato, le questioni di genere e quelle etniche che si chiamavano, senza porsi alcun problema di usare un linguaggio politicamente scorretto, razziali.

Basta sfogliare i giornali del tempo per imbattersi in un mondo intero che semplicemente non esiste più e nel quale molto di ciò che si considerava naturale, oggi verrebbe considerato criminale. 

Un’altra epoca, anzi, un’altra età. 

Un’età dell’incoscienza e dell’irresponsabilità viene da dire a guardarsi indietro con gli occhi di oggi. 

E voltarsi indietro è un esercizio che, forse, vale la pena fare non per celebrare un processo alla storia ma, al contrario, per provare a sottrarci a un processo della storia. 

Il punto è questo se è vero, come scriveva Cicerone, che la storia è maestra di vita. 

Se oggi a guardare all’amaca per far dormire i bambini in viaggio, alle automobili prive di qualsiasi dispositivo di sicurezza, alla birra al volante, al fumo anche in TV, alla plastica e alle questioni politicamente scorrette noi etichettiamo quel passato come età dell’incoscienza, dell’irresponsabilità, forse qualcuno potrebbe persino dire della barbarie, cosa penseranno del nostro presente e di noi i nostri figli? 

Difficile dirlo ma potrebbero, anzi, potranno e ne avrebbero, anzi avranno motivo quando si renderanno conto – e accadrà molto più in fretta di quanto ci abbiamo messo noi a arrivare a giudicare tanto severamente quel passato – che abbiamo pubblicato la loro prima foto online quando non erano ancora nati, sbattendo sui nostri profili social la loro ecografia, per poi proseguire con la foto del primo bagnetto, del primo compleanno, del primo giorno di scuola e rendendoli così personaggi pubblici senza che ce lo chiedessero e dandoli in pasto a miliardi di persone e a un esercito di algoritmi bulimici di ogni genere di contenuto personale e capaci di consentire a chiunque di trasformare la più innocente delle fotografie di un bambino in un’orrifica produzione pedopornografica. 

E quando ricorderanno che non camminavano ancora quando li abbiamo lasciati, talvolta anche da soli, davanti allo schermo di un tablet, babysitter globale di questa epoca, esponendoli a una dipendenza ormai scientificamente conclamata o che li abbiamo aiutati, a otto, nove o dieci anni, a diventare utenti tanto attivi quanto inconsapevoli di servizi e piattaforme che gli stessi gestori dichiarano vietati a infratredicenni, salvo poi lasciare entrare chiunque purché dichiari di avere almeno tredici anni. 

Ma non basta. 

Questa è solo la crosta, grattando sotto la quale, nel giro di qualche anno, chi si volterà a guardare indietro si renderà conto che un intero sistema valoriale culturale, etico e giuridico ultrasecolare è stato immolato sull’altare di una rivoluzione tecnologica della quale siamo stati velocissimi – non per merito nostro ma per le spinte irresistibili del mercato – a capire i vantaggi e lentissimi – anche nei pochi casi in cui è avvenuto – a capire il costo. 

Perché in pochi, ancora oggi, abbiamo capito che le decine di servizi digitali che popolano i nostri dispositivi e senza i quali, semplicemente, non sapremmo più vivere benché ci si presentino come gratis, gratis non sono affatto. 

In realtà quei servizi li stiamo pagando da anni, da sempre, dal primo click o dal primo tap sullo schermo dello smartphone cedendo ai loro fornitori – una manciata di oligopolisti – le nostre vite sin nei dettagli più intimi e privati nella forma di dati personali, i dati che riversiamo sui social quotidianamente travolti dall’irresistibile tentazione del condivido ergo sum o i dati relativi a ogni nostra esperienza digitale con i quali siamo tracciati, profilati, vivisezionati istante per istante per consentire a chi offre il servizio di conoscerci sempre meglio. 

E quando si smaschera questo grande equivoco, oggi, i più alzano le spalle con indifferenza perché non riescono a capire la conseguenza di questo baratto di dati contro servizi, non riescono a capire che aver consentito e continuare a consentire a pochi giganti del digitale di conoscerci così bene ha significato – e significherà sempre di più entrando nella società degli algoritmi – consentire loro di eterodirigere ogni nostra scelta, far carne da macello del nostro diritto all’autodeterminazione, travolgere le nostre libertà in tutte le dimensioni della nostra vita. 

Quello che guardiamo in TV, quello che leggiamo, quello che ascoltiamo, quello che compriamo, persino le persone che conosciamo sui social e nelle app di dating online, tutto, ormai, è inesorabilmente deciso dagli algoritmi o, meglio, dai padroni delle fabbriche che li producono. 

Ed è così per ogni scelta nostra e dei nostri figli, sino, sfortunatamente, a arrivare a quelle più determinanti nella vita di una democrazia. 

Noi non lo vediamo, non ce ne accorgiamo, magari ci illudiamo, persino, che non sia così e di avere saldamente il controllo della nostra vita, ma da qui a qualche anno, i nostri figli smaschereranno questo grande bluff. 

E a quel punto? 

Difficile dire se consegneranno quest’età alla storia come l’età dell’incoscienza tecnologica e noi come incoscienti e irresponsabili digitali per la straordinaria superficialità con la quale, da adulti, da insegnanti, da rappresentanti delle Istituzioni, da decisori pubblici, manager e capitani d’industria abbiamo gestito e continuiamo a gestire la rivoluzione tecnologica. 

Ma è possibile che sarà così e, forse, ce lo meriteremmo e, anzi, ce lo meritiamo. 

Forse varrebbe la pena farci un esame di coscienza, prendere atto degli errori che abbiamo commesso e che continuiamo a commettere e correre ai ripari per provare, almeno, a mitigare il giudizio dei nostri figli.