Avete mai provato a lanciare una ricerca su YouTube scrivendo semplicemente “In love with a chatbot”?
Se lo fate vi imbatterete in migliaia di video, in ogni lingua del mondo che raccontano di storie d’amore tutte egualmente realmente accadute tra persone in carne ed ossa, donne e uomini e chatbot. Quello che abbiamo appena sentito è l’inizio di un’intervista a Alaina Winters, moglie innamorata di un chatbot.
Per fortuna non ci riguarda direttamente ma c’è un articolo appena pubblicato da Mashable che ha dolorosamente rapito la mia attenzione questa mattina. Il titolo dice quasi tutto: “Come richiedere un aborto proteggendo la tua privacy digitale”. Il contenuto, naturalmente, è quello suggerito dal titolo. Una lunga serie di istruzioni da seguire se si vive negli Stati Uniti d’America e si vuole saperne di più sull’aborto, istruzioni, purtroppo, utili oggi più di ieri a seguito del giro di vite dell’Amministrazione Trump contro l’aborto.
Nelle scorse settimane ci siamo occupati, da diverse angolature, dell’avvento, anche in Italia, di DeepSeek, e degli effetti causati dall’introduzione dell’applicazione cinese dei modelli di intelligenza artificiale che, in pochi giorni, ha scalato le vette della classifica dei download gratuiti dell’App Store sia nella stessa Cina sia negli Stati Uniti, sorpassando ChatGPT. Come è noto, DeepSeek è paragonabile a OpenAInella risoluzione di problemi matematici, nella programmazione e nell’inferenza del linguaggio naturale.
Questo è, probabilmente, uno dei podcast destinato a generare il maggior numero di scongiuri e gesti apotropaici della storia e, sicuramente, non è uno dei migliori con i quali iniziare una giornata. E, però, proprio perché non ci piace pensarci c’è una funzione che Apple mette a disposizione degli utenti dei suoi dispositivi che rischia di essere sotto-utilizzata e che, invece, è – o può essere – preziosa. Si chiama “contatto erede” e serve a identificare una o più persone che in caso di nostra morte possano accedere ai contenuti dei nostri dispositivi Apple o, almeno, a una parte di quelli archiviati su iCloud.
Il problema è noto anche se, credo, non se ne parli mai abbastanza: online i più piccoli possono trovare ogni genere di contenuto e servizio, alcuni sono adatti a loro, altri no. Personalmente sono, da sempre, convinto che tocchi ai fornitori di contenuti e servizi fare il possibile perché ogni utente online possa accedere solo a contenuti adatti alla sua età e sono egualmente convinto che, sin qui, nessuno abbia fatto abbastanza in questa direzione. Che sia avvenuto per convenienza economica – i bambini sono un terzo degli utenti online – o per non rendere troppo complicato il processo di onboarding degli utenti, rischiando di perderne troppi o, ancora, perché non si è ritenuta la questione sufficientemente importante, onestamente, credo cambi poco. Così avanti non si può andare anche perché, ormai, esistono un numero importanti di leggi che impongono al gestore della piattaforma digitale di conoscere l’età dei propri utenti per trattarli in maniera differenziata, senza dire che nella più parte degli ordinamenti in giro per il mondo c’è un limite di età sotto il quale il contratto con gli utenti è nullo o, almeno, annullabile se l’utente è troppo piccolo. Ma la questione è troppo complessa e ricca di sfumature per concentrarla tutta in questo caffè del mattino. E, quindi, oggi mi limito a segnalare che Apple ha appena pubblicato un documento – otto pagine, super accessibile a chiunque – con il quale racconta che nel 2025 introdurrà alcune novità importanti per contribuire alla soluzione del problema pur restando contraria all’introduzione nel proprio store dell’age verification essenzialmente per questioni legate alla privacy. Il link al documento nel post. Le principali novità saranno queste. Una semplificazione in termini di usabilità del processo con il quale noi genitori potremo configurare un account speciale riservato ai nostri figli per limitarne e controllarne l’uso del dispositivo, la condivisione con gli sviluppatori di tutte le app non della data di nascita dei nostri figli – troppo secondo Apple – ma di una fascia di età che dovrebbe servire agli sviluppatori a fare in modo di non proporre agli utenti più piccoli di una certa età contenuti a loro non adatti e una nuova classificazione di queste fasce di età: +4 anni, +9, +13, +16 e +18. La mia prima sensazione letto il documento è stata che Apple sta sfilando via a genitori e sviluppatori di app, a cominciare, naturalmente, dai più grandi, ogni alibi per non fare la loro parte sino in fondo a difesa dei più piccoli. Il titolo del documento “Aiutare a proteggere i bambini online”, d’altra parte, sembra confermarlo. Ai primi ricorda che gli strumenti per fare i genitori anche mettendo in mano ai figli uno dei propri dispositivi ci sono e saranno sempre più facili da usare. Niente scuse, quindi, a noi trovare dieci minuti per configurare al meglio smartphone e tablet prima di lasciarli usare ai più piccoli. Ai secondi sta dicendo che non potranno più far finta – perché di questo si è trattato sin qui – di non conoscere le fasce di età degli utenti almeno nella misura in cui i genitori avranno scelto di condividerle e che, di conseguenza, non potranno più accontentarsi delle promesse da boyscout degli utenti che pur di accedere a servizi non adatti alla loro età, generalmente, dichiarano di avere un’età che non hanno. Una mossa smart. Forse anche un po’ furba, perché mentre non sono certo che tocchi ai gestori degli store online di applicazioni risolvere il problema dei singoli fornitori e neppure che sia una buona idea, non ho grandi dubbi sul fatto che la questione della privacy, sia agitata un po’ come un alibi per non far di più anche se sarebbe possibile. Ma conta poco in questo momento, perché credo sia più importante guardare al passo avanti fatto che a quello in più, forse – perché la questione merita un approfondimento – non fatto.
Buona giornata e, ovviamente, good morning privacy!
Ascoltate il nostro silenzio. È quello che resterà della nostra musica se il Governo regolamenterà l’utilizzazione delle opere dell’ingegno per l’addestramento degli algoritmi come appare intenzionato a fare ovvero permettendo alle fabbriche di intelligenza artificiale di pescare a strascico tutto quello che trovano online salvo che il singolo titolare dei diritti non abbia contraddistinto il singolo specifico file musicale con un sistema attraverso il quale manifesta il suo divieto.
Arriva largamente annunciato tanto da non suscitare alcuna sorpresa l’avvio da parte della Federal Trade Commission di un’indagine per capire se e quanto l’industria tecnologica – big tech in testa – abbia sin qui esercitato forme di censura rimuovendo, demonetizzando o penalizzando nell’indicizzazione e diffusione i contenuti degli utenti in ragione delle opinioni espresse.
Sarebbero già 135 mila le applicazioni che Apple ha cancellato dal suo store perché non conformi alle Il sito internet accoglie ancora i visitatori con un claim che è tutto un programma, forse la cosa migliore dell’intera iniziativa: guarda il mondo, non il tuo schermo.
Sarebbero già 135 mila le applicazioni che Apple ha cancellato dal suo store perché non conformi alle nuove regole del Digital Service Act ovvero perché non sufficientemente trasparenti con utenti e consumatori.
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