Una ricerca condotta negli Stati Uniti d’America da Common Sense Media dice che il 72% degli adolescenti tra i 13 e i 17 anni, il che significa circa 20 milioni di bambine, bambini, ragazze e ragazzi ha già provato un chatbot companion, un amico artificiale diversamente intelligente.
Proprio ieri, Telefono Azzurro, dal 1987, in Italia, dalla parte dei più piccoli, ha lanciato un allarme sui rischi legati alle relazioni che si stanno creando tra i più piccoli e i chatbot.
La sigla e ne parliamo.
Le cattive amicizie o, semplicemente, quelle sbagliate sono da sempre, da ben prima che la dimensione digitale diventasse l’ambito naturale della nostra vita una delle principali preoccupazioni dei genitori.
Niente segna il destino di un bambino, ne condiziona i comportamenti e ne plasma il modo di essere più dell’ambiente nel quale cresce e degli amici che frequenta.
Naturale, quindi, preoccuparsene.
Non serve, quindi, probabilmente aggiungere neppure una parola per capire perché i dati appena diffusi da Common Sense Media e l’allarme appena lanciato da Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro andrebbero presi sul serio e messi al centro di un dibattito serio, costruttivo ma, soprattutto, veloce e capace di recuperare in qualche mese un ritardo enorme accumulato nell’affrontare il problema.
I chatbot sono già oggi interlocutori abituali dei nostri figli adolescenti anche se c’è certamente chi si avvicina a questi amici virtuali ben prima dell’adolescenza.
Oltre la metà degli adolescenti americani tra i 13 e i 17 anni interagisce con un chatbot regolarmente cioè quotidianamente o, comunque, più volte a settimana.
Stiamo parlando, tanto per evitare che la percentuale spersonalizzi la riflessione, più o meno di dieci milioni di bambini.
Non c’è ragione per pensare che numeri e cifre a parte, l’impatto del fenomeno da questa parte dell’oceano sia diverso.
E, tanto per evitare equivoci, vale la pena dire che la ricerca di Common Sense Media non si riferisce al ricorso da parte dei più piccoli a intelligenze artificiali generative alla ChatGPT o GeminiAI per fare i compiti o chiedere aiuti o aiutini – il che pure rappresenta un fenomeno non trascurabile e del quale bisognerebbe occuparsi – ma esclusivamente alla relazione dei nostri figli con Chatbot conversazionali e cioè con servizi digitali basati sull’intelligenza artificiale forniti con l’intento dichiarato di esserci amici, compagni di un pomeriggio o di una serata, fidanzati, fidanzate, amanti o qualsiasi altro profilo l’utente – piccolo o grande – desideri.
Replika, Character AI, ora Grok di Elon Musk sono alcuni esempi di questo genere di chatbot che minacciano di diventare buoni amici dei nostri figli i quali li scelgono, dice la stessa ricerca americana appena pubblicata, nella più parte dei casi, per passare il tempo, per chiedere consigli, perché ci sono sempre anche quando amici e adulti in carne ed ossa non ci sono, perché da questi chatbot non si sentono giudicati o per parlare di questioni delle quali non possono parlare in famiglia.
Zero dubbi, salvo che non si vada alla ricerca di confortanti elementi autoassolutori e non si voglia cercare rifugio nella circostanza, pure rivelata dallo studio, secondo la quale la più parte degli adolescenti americani, almeno per ora, continua a preferire un amico in carne ed ossa a un chatbot, che, tutto questo abbia un impatto enorme sulla vita dei nostri figli e che non è niente affatto scontato che i suoi effetti siano positivi.
Difficile, ad esempio, trascurare l’allarme di Telefono Azzurro quando dice che i due chatbot companion appena resi disponibili da Grok, anche in Italia, non rappresentano i modelli di amici ideali con i quali ci piacerebbe i nostri figli passassero il loro tempo.
E, però, lasciando a chi ne sa più di me ogni valutazione sull’impatto del fenomeno sui più piccoli, sul loro sviluppo e sul loro futuro, credo ci sia una cosa sulla quale dovremmo trovarci tutti d’accordo: non può essere il mercato e non può essere l’industria a decidere a che età i nostri figli debbano poter interagire con questi amici artificiali, di cosa possano o non possano discuterci, per quanto tempo e a quali condizioni.
Dovremmo essere, credo, in buona parte noi genitori – ma per farlo bisogna, innanzitutto, portare quel cinquanta per cento della popolazione europea analfabeta digitale a capire cosa sta accadendo e come funzionano queste tecnologie – e, dove educazione e famiglia non bastano, dovrebbero essere regole, non ha importanza quanto rigorose, perché, in questo caso, la posta in gioco è troppo alta.
Ma il momento di agire era ieri. Oggi, forse, non è ancora troppo tardi. Ma domani lo sarà.
Buona giornata a tutti e ai colleghi genitori innanzitutto e naturalmente good morning privacy!